Il miglioramento della prestazione: quale allenamento?
“Bravo, veramente un bell’esordio”. I complimenti sono d’obbligo per chi abbia avvicinato il personal best alla prima gara della stagione agonistica. “Pensa che non ho ancora introdotto i lavori specifici” è la tipica osservazione dell’atleta o del suo allenatore, a sottolineare il fatto che si è ancora lontani dal top della condizione. Succede spesso che, col procedere delle competizioni, l’auspicato miglioramento della prestazione non si riscontra e, talvolta, si va incontro ad un prematuro decadimento dello stato di forma. È probabile che ci si trovi nella condizione di confondere la “specificità” dell’allenamento con l’utilizzo di prove sempre più “veloci”. In realtà il lavoro specifico non può essere disgiunto dalla specialità praticata.
Gli stimoli specifici per raggiungere gli obiettivi agonistici
Nel clan di Renzo Arbore esclamerebbero: “è la parola stessa che lo dice!”. Più numerosi sono gli elementi simili alla gara presenti nell’allenamento e più risulta “specifico” la tipologia dello stimolo. Ad iniziare dall’intensità (velocità) di corsa prossima a quella di gara (né più lenta, né più veloce).
Uno dei principi generali dell’allenamento sostiene che, all’approssimarsi dell’obiettivo principale del periodo, la percentuale degli stimoli specifici deve aumentare. La scuola di maratona italiana ha assunto una sua identità applicando questo (semplice) assioma ai 42 chilometri. “Specializzarsi” vuol dire restringere il campo delle proprie abilità tendendo verso la perfezione. E l’approfondimento è prerogativa di ogni processo formativo. La scuola primaria è identica per ingegneri, medici e avvocati. Il maratoneta è in possesso del diploma di atleta, della laurea in corsa aerobica e frequenta il master sui 42 km. Lo stesso ragionamento andrebbe fatto per qualsiasi specialità dell’atletica leggera e/o per tutte le altre discipline sportive.
Quando manca il lavoro specifico: il caso dei mezzofondisti azzurri
In molti hanno espresso giudizi in merito al perché i mezzofondisti azzurri hanno difficoltà a rinverdire i fasti di Cova, Mei, Antibo e Co. Di solito, senza possedere alcun elemento di valutazione e di confronto. L’incarico ricoperto nel settore mezzofondo mi ha permesso di acquisire una sufficiente quantità di informazioni per sostenere che, da un punto di vista tecnico, l’organizzazione dell’allenamento è improntata sull’esigua percentuale del lavoro specifico. Manca (è insufficiente) la progressività nella costruzione delle intensità squisitamente aerobiche.
L’allenamento lungo è troppo lento e le prove in pista eccessivamente veloci e, per questo, necessariamente corte, poche e con tanto recupero. La terminologia utilizzata dagli atleti è sufficiente per indicare quali sono, per loro, gli allenamenti fondamentali: “domani ho il lavoro”. Intendendo, con questo, le prove veloci in pista. Scarsa l’attenzione alle velocità della corsa continua, in progressione o variata. Che, a ben osservare, ha molti più punti di contiguità con la gara dei 5 o dei 10 mila metri! Se un nostro maratoneta riesce, in allenamento, a correre per 28 chilometri alla media di 3’03”, per quale motivo un atleta che si cimenta sui 10 chilometri non debba essere in grado di coprire (con facilità) 15-20 chilometri sotto i 3’ al chilometro?
L’organizzazione dell’allenamento nella stagione agonistica
Con questo non voglio sostenere che sono da bandire gli allenamenti poco legati alla prestazione. Anzi. I presupposti della formazione e i metodi di strutturazione delle basi motorie per un ulteriore incremento prestativo (salto di qualità) hanno, come fondamento, l’articolazione composita e complessa dei mezzi dell’allenamento. Non da ultimo è da tenere in debito conto la gestione e l’organizzazione dell’allenamento durante la stagione agonistica. La partecipazione ad una serie di gare comporta, senza che se ne percepisca la reale entità, il prevalere dell’intensità a scapito del volume (uno o più giorni di scarico prima e di riposo attivo dopo la competizione) nonché tensioni e disagi (stress agonistico, trasferimenti). Le tensioni e i disagi sono difficilmente eliminabili. Si può, al contrario, intervenire, senz’altro, sul versante del carico di lavoro inter-competitivo che, per quanto possibile, dovrebbe continuare a prevedere lo sviluppo organico delle caratteristiche fondamentali e accessorie relative alla prestazione.
Per banalizzare (ma non troppo) e racchiudere in una battuta le considerazioni fatte: provate a correre velocemente il “lento” e lentamente le prove veloci. Le gare di corsa prolungata non sono altro che questo.
Altri articoli tecnici:
Conoscere e mixare le intensità di lavoro nell’allenamento del corridore. (Also in English)
“provate a correre velocemente il “lento” e lentamente le prove veloci. Le gare di corsa prolungata non sono altro che questo.”
Non sono d’accordo. Molti autori e allenatori praticano la teoria dell’ 80/20, cioe 80% lenti e 20% di qualita’, con cui concordo.
Uno dei maggiori problemi della scuola italiana e’ proprio che fa tirare troppo tutto, anche la corsa lenta, la quale non andrebbe per niente velocizzata, anzi.
Il tuo commento denota che non hai letto con sufficiente attenzione l articolo. Contestualizza il virgolettato con il resto dell articolo e capirai meglio il senso del discorso.
Troppo spesso si prende per “assioma” quello che si legge, il problema degli allenatori è questo. Si viene formati focalizzando troppo su quelle che sono le conoscenze teoriche (spesso nemmeno troppo, vedi i corsi fidal) tralasciando lo sviluppo delle capacità critiche e di analisi, che ognuno di noi potrebbe avere.
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Troppo spesso si prende per “assioma” quello che si legge, il problema degli allenatori è questo. Si viene formati focalizzando troppo su quelle che sono le conoscenze teoriche (spesso nemmeno troppo, vedi i corsi fidal) tralasciando lo sviluppo delle capacità critiche e di analisi, che ognuno di noi potrebbe avere.